Il Museo diocesano nasce nel 1940 per volontà del Vescovo Filippo Maria Cipriani in seguito al rinvenimento del “Tesoro di Canoscio” (VI secolo d.C.), presso l’omonimo santuario a Trestina di Città di Castello. Lo spazio museale fu allestito presso la sacrestia della Basilica Cattedrale dei Santi Florido e Amanzio in soli due locali; successivamente ampliato nel 1991 in sale attigue e più antiche del Trecento e Quattrocento. L’attuale sede, all’interno dell’antica Canonica, risale all’anno 2000: i dodici locali, di cui un maestoso Salone Gotico sono stati tutti sottoposti ad una laboriosa opera di restauro, che li ha riportati alla loro originaria fisionomia.
Il Tesoro di Canoscio
Fu casualmente ritrovato nella primavera del 1935 a Canoscio, nella zona sud di Città di Castello. Era disposto a mucchio, coperto da un grande piatto che venne ridotto in frantumi dal colpo del vomere al momento della scoperta. Raro esempio di Arte Paleocristiana, è costituito da 25 oggetti tra piatti, patene, calici, una pisside con coperchio, colatoi, un piccolo ramaiolo e un buon numero di cucchiai. L’assenza di segni religiosi in oggetti che ne sono solitamente provvisti, come il calice e la pisside e la presenza di utensili estranei alla liturgia, come è il caso, ad esempio, del ramaiolo e dei cucchiai, hanno fatto ipotizzare che si trattasse in origine di strumenti domestici, in seguito donati ad una comunità cristiana e quindi appositamente decorati con simboli propri della nascente religione (il pesce, la croce e la colomba). I nomi di Aelianus et Felicitas, incisi sulla patena, potrebbero essere quelli dei donatori. Recenti studi hanno individuato due pezzi gemelli (un piatto e un cucchiaio) conservati al Bode Museum di Berlino ed altri pezzi forse facenti parte del corredo liturgico tifernate conservati sempre in Germania.
Il paliotto di Celestino II
Secondo la tradizione fu donato nel 1142 da Papa Celestino II (1143-1144), originario di Città di Castello, della famiglia Guelfucci, Canonico della Cattedrale dal 1114, alla Basilica Cattedrale dei Santi Florido e Amanzio. Destinato all’altare maggiore, è realizzato in argento sbalzato, cesellato e in parte dorato. È decorato al centro dalla figura di Cristo benedicente, assiso su un trono e circondato dai simboli degli Evangelisti. Ai lati, suddivisi in scomparti, sono rappresentati gli episodi dell’Annunciazione, Visitazione e Natività; Adorazione dei Magi e Presentazione di Gesù al Tempio; Fuga in Egitto e Tradimento nell’Orto del Getzemani; Crocifissione. Accanto a quest’ultima scena si dispongono tre figure, tradizionalmente identificate nei santi tifernati Donnino, Florido e Amanzio. La scelta tematica del manufatto è strettamente connessa alla funzione che la suppellettile sacra aveva nel Medioevo ed al ruolo che l’altare rivestiva all’interno della chiesa. Probabilmente il Paliotto è opera di più artisti, di tradizione bizantina ma già a conoscenza della cultura romanica, evidente, ad esempio, nel plasticismo delle figure che emergono con forza dal fondo della lamina. Fu Pietro Toesca, uno dei maggiori esperti di Arte Medievale, a darne una definizione stilistica più precisa, individuando un linguaggio più affine alla scultura lombarda.
Il riccio di pastorale di Goro di Gregorio
In argento sbalzato, cesellato, bulinato e parzialmente dorato, è costituito da un bastone ottagonale ornato da file sovrapposte di finestre bifore. Al termine di queste fuoriesce una piccola edicola, ai cui lati si affacciano una serie di santi realizzati a smalto e lavorati a traslucido. Ancora sopra è un secondo ordine di bifore, da cui parte la voluta del riccio, a sezione quadrangolare, con profili addolciti da raffinate figure di santi, fiori, animali fantastici e uccelli. Il riccio è sostenuto, in basso, da un angelo ad ali spiegate sopra una mensola. All’interno della voluta, un piedistallo orizzontale sostiene le statuine della Vergine con il Bambino e il Vescovo Florido inginocchiato. L’opera è attribuita a Goro di Gregorio, orafo e scultore senese, che nella più documentata produzione in marmo traspose la stessa raffinatezza dei lavori di oreficeria. In un rogito di Ser Angelo di Domenico si apprende che il Pastorale apparteneva al Vescovo Sirobaldi da Perugia (1424-1441) e che nel 1436 questi lo fece consegnare in gelosa custodia a Bartolomeo Fucci.
La pergamena di Federico Barbarossa
L’occupazione di Città di Castello da parte dell’Imperatore germanico Federico Barbarossa è testimoniata da due atti emanati il 6 novembre 1163. Con essi egli poneva sotto la sua protezione il vescovo scismatico Corbello e i canonici della Cattedrale, che venivano reintegrati del possesso dei beni alienati dai predecessori. L’atto qui riprodotto fu emanato a favore di coloro che allora abitavano la Canonica, edificio adiacente alla Cattedrale, e specifica i beni che questa possedeva in Castellana Civitate.
Il Cristo deposto
Attribuita alla scuola di uno dei più importanti architetti del Quattrocento, la scultura debitamente restaurata, ha recuperato la sua originaria policromia. È dotata di braccia mobili che permettevano di atteggiarla sia come Cristo Crocifisso che come Deposto. Questo tipo di Crocifissi erano infatti utilizzati nelle Sacre Rappresentazioni che si svolgevano durante la Settimana Santa. Dai caratteri fortemente realistici, soprattutto nel marcato espressionismo del volto, questi simulacri spesso affiancavano veri e propri attori.
La tavola di Pinturicchio
Pur nella semplicità della raffigurazione, l’opera racchiude un denso significato teologico. Al centro della scena è infatti la figura del Bambino, in piedi sulle ginocchia di Maria, raffigurata come madre e mediatrice nell’atto di sorreggergli la mano benedicente. Il Bambino è a sua volta indicato come il Messia da San Giovanni Battista, che sostiene la scritta Ecce Agnus Dei, ovvero il predetto secondo quelle Sacre Scritture il cui libro stringe al petto. Non esiste documentazione certa relativa alla committenza di questa opera, ma studi recenti sono propensi ad indicare la tavola dipinta dall’artista a Roma in concomitanza agli affreschi dell’Appartamento Borgia in Vaticano (1492-1945). La piccola tempera si contraddistingue per la sua minuzia ornamentale e il brio narrativo e rispecchia l’istinto e la naturale propensione dell’artista a mettere in evidenza il dettaglio. Una rivalutazione dunque del Pinturicchio sostenuta anche dello stesso Cesare Brandi, rispetto alla critica vasariana, che lo vedeva come un decoratore a metraggio, senza arte e senza scienza.
Il Cristo in Gloria di Rosso Fiorentino
Nel 1528 la Compagnia del Corpus Domini commissionava all’artista un tavola che rappresentasse il Cristo Risorto in Gloria con la Vergine e le sante Anna, Maria Maddalena e Maria Egiziaca e, in basso, “più e diverse figure che […] rappresentino el populo”. Le richieste del contratto vennero in effetti onorate per quanto riguarda le figure sacre da rappresentare nella parte alta del dipinto. La mancanza di un’indicazione specifica di come dovesse essere rappresentato il popolo offrì invece al pittore la libertà di scegliere le figure in modo del tutto originale. Nella composizione vennero dunque inseriti personaggi del tutto inusuali in una raffigurazione sacra: un uomo di colore, una donna che tiene per mano un bambino erculeo, un soldato, uno zingaro baffuto, una venditrice di polli, un’altra figura femminile con un bambino in braccio ma di spalle a chi guarda e più grande della figura del Cristo. Rosso Fiorentino, scolaro di Andrea del Sarto e su influenza del Pontormo e di Michelangelo realizzò questa tavola in modo geniale e bizzarro, tanto che essa risulta una delle sue opere più significative tra le ultime che dipinse prima di recarsi in Francia alla Corte di Francesco I di Valois (1494-1547). L’originalità della scelta, in perfetta rispondenza con il messaggio evangelico, riflette pienamente l’autonomia dell’artista, tra i più famosi esponenti di quel Manierismo destinato ad innovare profondamente e in modo rivoluzionario, i codificati schemi pittorici del Rinascimento.